La Semplice aritmetica del contagio

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POCHI CONTI MOSTRANO CHE E’ GIUNTO IL MOMENTO DI CAMBIARE ROTTA

Il rischio c’è e cresce.

Per contrastare la diffusione del Coronavirus è di fondamentale rilevanza poter procedere in tempi ristretti al tracciamento dei casi e dei loro contatti.

Per ogni nuovo contagiato è necessario identificare in media tra le 15 e le 20 persone con le quali è venuto a stretto contatto.

Con quasi 12 mila nuovi casi (dati di domenica 18 ottobre) servirebbero tra i 176 e i 234 mila tamponi solo per un tracciamento adeguato, ma la capacità operativa si spinge con fatica oltre le 150 mila unità (165 sabato; 147 domenica; 99 lunedì). Inoltre, i tamponi nel complesso eseguiti includono anche quelli necessari ad attestare la negatività dei contagiati, una volta terminato il periodo di quarantena o isolamento domiciliare

La crescita assai attenuata del numero di persone in isolamento domiciliare mostra che la carenza nella capacità di eseguire tamponi non è superata ricorrendo allo strumento della quarantena individuale.

Con una nota dello scorso maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità individua degli indicatori sulla base dei quali stabilire se l’epidemia sia sotto controllo. Tra questi rientrano: i) la possibilità di attribuire almeno l’80% dei casi a liste di contatti ben identificati (operazione difficile data la scarsa diffusione della App Immuni e dato le insufficienti dotazioni di personale specializzato da dedicare a questa operazione); ii) meno del 5% di test positivi sul totale di quelli effettuati (6,6% sabato; 8,0% domenica; 9,4% ieri).

È un esercizio aritmetico semplice ma (purtroppo) affidabile quello che ci spinge a dire che l’andamento dei contagi evidenzia l’avvio di nuova fase, nella quale non si riesce più a rimanere sulle tracce del contagio, quantomeno in porzioni ampie del territorio nazionale. Di questo passo aumenterà, giorno dopo giorno, il numero di positivi inconsapevoli la cui circolazione faciliterà la diffusione dei contagi (in assenza di misure di contrasto efficaci, nelle circostanze attuali i casi raddoppiano in capo a 7/10 giorni).

In Banca lo stiamo fortemente sottovalutando.

Nel libro bianco della Banca (probabilmente un’altra Banca) si stimano in un modesto 7% gli FTE (full-time equivalent) corrispondenti ad “attività che possono essere svolte da remoto ma per le quali si osserva una maggiore efficacia o una riduzione del rischio se svolte in presenza”; il resto è diviso tra un 28% di attività che richiedono la presenza e un ragguardevole 65% di attività che “possono essere svolte con piena efficacia da remoto”.

Queste stime mal si conciliano con le presenze superiori al 50% che si stanno registrando da settembre. Non si conciliano affatto, poi, con l’obbligo di presenza di titolari e sostituti e con la richiesta uniforme di assicurare 5 giorni di presenza al mese. Presenza peraltro che il dipendente può rendere in totale flessibilità arrivando in astratto anche a lavorare 10 mezze giornate, in controtendenza con l’approccio basato sugli split team, predisposti dalle primarie realtà industriali e finanziarie del Paese per contenere il rischio di contagio.

A chi è indirizzato esattamente questo obbligo di assicurare 5 giorni di presenza al mese? A quel 65% che può lavorare da remoto con piena efficacia? Diremmo di no, visto che non ci sarebbe vantaggio a farlo in presenza. È rivolto forse a coloro che devono necessariamente lavorare in presenza? Ovviamente no. Se non c’è alternativa al lavoro in presenza questo andrà assicurato, sulla base di protocolli adeguati. Per esclusione sembrerebbe che l’unico target a cui è applicabile la richiesta di rientro in presenza è quel modesto 7% che, in tempi normali, ne trarrebbe un qualche beneficio. È però nulla più che una pia illusione immaginare che in questa fase l’attività di ciascuno possa beneficiare di interrelazioni sociali.

In Banca stiamo fortemente sottovalutando il rischio. Ignoriamo il fatto che ambienti meno affollati sono una garanzia a favore di chi deve essere presente. Trascuriamo l’esposizione che ogni dipendente, in una quotidiana roulette russa, affronta quando utilizza mezzi pubblici in condizioni di oggettivo sovraffollamento per raggiungere il posto di lavoro. Creiamo negli ambienti di lavoro quegli assembramenti che andrebbero scongiurati (centinaia di colleghi infatti, pur presenti in servizio, evitano le mense) correndo il rischio di fare degli uffici dei pericolosi amplificatori del contagio.

Aggiustare la rotta: se non ora, quando?

È il momento di fare delle scelte e di assumersi delle responsabilità. Questo chiediamo al vertice dell’Istituto. È il momento per una riconsiderazione complessiva della strategia delineata in estate, in un quadro epidemiologico favorevole. 

Per la gestione più efficace dell’emergenza, al fine di minimizzare i rischi per la salute del personale e garantire la continuità operativa è il momento di abbandonare gli indugi.

Lo smart working sia individuato come modalità principale di svolgimento della prestazione lavorativa per la fase di emergenza, eliminando ogni obbligo di presenza minima e tenendo conto delle esigenze di presenza dei singoli colleghi.

Si garantisca maggiore sicurezza a chi dovrà prestare la sua attività in presenza e si introducano veramente tutti gli strumenti atti a favorire la mobilità privata.

È necessario che qualcosa si faccia oggi, quando vi sono ancora i margini e le condizioni per rinsaldare il senso di appartenenza all’Istituto. Ogni altra alternativa rappresenterebbe una terribile occasione sciupata, che potrebbe portare verso conseguenze molto rischiose per la salute del personale.

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