Ad Auschwitz c’era la neve…

Immagine

“Ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento…”. Così scriveva Francesco Guccini in una delle sue più belle e inarrivabili canzoni. Quel fumo, in un gelido giorno di gennaio del 1945 smise all’improvviso di salire. Le enormi ciminiere di mattoni che lo portavano su nel cielo erano sbriciolate a terra, distrutte dalle belve naziste nel tentativo di cancellare ogni traccia dello sterminio ora che l’Armata Rossa, di vittoria in vittoria, era ormai a un passo.

Per quelle ciminiere era “andato nel vento” un numero di esseri umani talmente grande che non riusciremo mai a conoscerlo con esattezza. Oltre un milione e trecentomila, secondo le stime più prudenti. Ebrei, in maggior parte e poi polacchi, zingari, omosessuali e prigionieri politici e di guerra. I pochi ancora sopravvissuti allo sterminio nelle camere a gas, forse sessantamila, erano stati uccisi con ogni arma o portati via dalle ss in fuga, in una tragica marcia della morte, nel gelo terribile e senza cibo né abiti adatti, che avrebbe condotto i pochi superstiti ai carri bestiame destinati a scaricarli in altri lager nel cuore della Germania. Ad Auschwitz rimasero in pochi, in gran parte moribondi senza speranza e gli altri dei coraggiosi che, nell’immensità del campo, erano riusciti a trovare un nascondiglio sicuro. Quando, al mezzogiorno del 27 gennaio, giunse nei pressi la prima pattuglia a cavallo dell’Armata Rossa, venne accolta da un silenzio immenso e straziante. Niente può essere più efficace, per descriverlo, delle parole che ci ha lasciato ne “La tregua” Primo Levi. Lui era lì e visse l’orrore e la Liberazione:

“La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla […]
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. […]”

Nell’arco di poche settimane tutti i lager vennero scoperti e liberati, dagli Anglo-Americani o ancora dall’Armata Rossa. Ovunque, le stesse inenarrabili mostruosità e il muto raccapriccio di tanti soldati che pure convivevano ormai da molto tempo con la violenza inaudita della guerra. Il calderone infernale era stato infine scoperchiato e ne veniva fuori come inarrestabile marea l’orrore assoluto.
Da allora, in oltre settantacinque anni non è mancato giorno in cui i criminali di un tempo e i loro seguaci vecchi e nuovi non abbiano provato a negare la tragedia della Shoah (“distruzione), il genocidio degli Ebrei, così come del Porrajmos (”grande divoramento”), quello dei Rom e dei Sinti.

Solo il racconto di Chi ha vissuto il genocidio può ricordare davvero quell’orrore immane ed è il modo più efficace per farlo conoscere alle nuove generazioni e per impedire a ciascuno di noi di dimenticarlo anche solo per un istante.

Vogliamo concludere quindi con le parole di Liliana Segre: “Non ho mai perdonato, come non ho dimenticato”. Insieme a Lei, che nessuno di noi perdoni o dimentichi, mai! Sul monumento nel campo di sterminio di Dachau è incisa, in trenta lingue, una frase del filosofo spagnolo G. Santayana che ce ne spiega inesorabilmente la ragione: “quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”.

Roma, 27 gennaio 2021

La Segreteria Nazionale